martedì 25 marzo 2014

ATTRIBUTI DI QUALITA' E LUOGHI COMUNI SULL'EXTRAVERGINE

L’analisi sensoriale e, quindi, lo studio delle caratteristiche organolettiche di un prodotto, rappresenta, come abbiamo avuto modo di approcciare in quest’articolo di qualche giorno fa, un importante strumento per la valorizzazione e la tutela delle produzioni. Il profilo sensoriale, di fatto, è una vera e propria carta d’identità che può essere utilizzata sia per la tutela sia per la comunicazione verso il consumatore finale. La conoscenza delle caratteristiche qualitative delle produzioni agroalimentari, attraverso l’uso dei sensi, è uno dei punti di forza su cui si fonda il progetto “Scuola del gusto”, insieme al complesso sistema di formazione multidisciplinare; lo è stato lo scorso anno per il vino, lo è quest’anno per l’olio e lo sarà in futuro. Ancora una volta, si è data la possibilità a tutte le associazioni, o enti operanti nel settore, di portare il proprio bagaglio di esperienze, cogliendo le diverse sfaccettature di un mondo complesso e affascinante al tempo stesso, visto l’enorme interesse e partecipazione che si raccoglie intorno ad una degustazione guidata. La prima lezione a tema è stata tenuta da Maurizio Corbo, capo del panel dell’Arsiam (panel di Larino), riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole con Decreto Ministeriale del 07/12/2000 (confermato il 14/06/2005), instancabile divulgatore della qualità dell’extravergine a suon di “amaro e piccante”.


Maurizio Corbo con la prova patatina (foto Sebastiano Di Maria)

Ancora una volta, il relatore ha rilevato, per cominciare, che l’olio è un prodotto di spremitura o di estrazione dall’olivo, quindi, come tale, ne trae tutte le caratteristiche qualitative del frutto stesso, in particolare l’amaro e il piccante. A tal proposito, Corbo ha fatto degustare ai corsisti delle olive, anche se in uno stato avanzato di maturazione, per percepire le peculiarità che poi si ritrovano nell’olio, come il profumo erbaceo della drupa appena aperta, o il sentore amaro della bacca alla degustazione. L’amaro è un sapore elementare caratteristico dell’olio ottenuto da olive verdi o invaiate, percepito dalle papille caliciformi (quelle che formano la V linguale, vedere la terza immagine di quest’articolo), mentre il piccante è una sensazione tattile pungente, caratteristica soprattutto delle olive verdi, percepibile in tutta la cavità boccale, in particolar modo in gola. Altro attributo positivo è il fruttato, insieme di sensazioni olfattive, dipendenti dalla varietà delle olive, caratteristiche dell’olio ottenuto da frutti sani e freschi, verdi o maturi, percepite per via diretta e/o retronasale (vedere la seconda immagine di quest’articolo). Altri aspetti positivi degli oli, non riconducibili a difetti sono: il dolce (basso contenuto in fenoli), pomodoro (ricorda la foglia di pomodoro), carciofo (aroma riconducibile al gusto di carciofo o di cardo) o di erbe aromatiche.

Un momento della degustazione di oli (foto Sebastiano Di Maria)

 Altro aspetto su qui ha calcato la mano il funzionario dell’Arsiam, sono i luoghi comuni da sfatare nel settore, alcuni, purtroppo, ancora molto radicati nell'immaginario collettivo,  spesso anche nei produttori.
1. L’olivo deve essere maturo, altrimenti non rende.
FALSO. Il grado di maturazione ottimale per avere la massima quantità di olio è l’invaiatura, ossia il viraggio dal colore vede al viola (massima inoleazione nelle drupe, come avevamo già precisato in quest’altro articolo.)
2. L’olio migliore è quello estratto dalle presse.
FALSO. L’estrazione con le presse, purtroppo, rappresenta un fattore inquinante straordinario (fiscoli), che può conferire il sentore di aceto se è in corso una fermentazione da olive scadenti e muffite, di altro proprietario, oppure di muffa (per approfondimenti leggere quest'articolo).
3. L’olio buono ha acidità bassa.
FALSO. L’acidità è solo uno dei parametri, più importanti sono l’amaro e il piccante, che denotano olive sane e al giusto grado di maturazione, quindi bassa acidità.
4. L’olio migliore è quello estratto a freddo e di prima spremitura.
FALSO. Non esiste una prima spremitura o la distinzione di estrazione a freddo, è solo una trovata commerciale per avvantaggiare gli oli di sansa. L’olio si estrae con acqua tiepida (25-30 °C) e rappresenta un passaggio delicato, poiché può portare al difetto di cotto, conseguenza di un’esigenza di aumentare la quantità di olio estratto, favorito dall’acqua calda (come avevamo scritto in quest’altro articolo.)
5. Il fritto con l’olio d’oliva è troppo pesante.
FALSO. Il punto di fumo (temperatura cui un grasso alimentare comincia a decomporsi, formando sostanze tossiche) dell’extravergine è di 160 °C, quello di girasole, molto utilizzato allo scopo, è di 130 °C. Inoltre, la temperatura alta di frittura, consente la polimerizzazione dell’amido esterno della patatina, per esempio, formando una barriera che impedisce l’assorbimento dell’olio da parte del prodotto, che cuocerà a vapore nella sua parte interna.

Maurizio Corbo durante la degustazione
Come avete notato, sono molti i luoghi comuni che circondano il mondo dell’extravergine e, purtroppo, l’informazione di massa, e la televisione in primis, non aiuta a dipanare la matassa, tutt’altro. C’è capitato in questi giorni di stare in casa e, nostro malgrado, abbiamo costatato la quantità di disinformazione che si fa nei “talk del gusto”, di cui abbondano tutti i network, e uno in particolare, ascoltato in diretta, dove si è promosso a chiare lettere l’uso degli oli di semi per la frittura, da quelli che fanno opinione, mentre il nutrizionista si affannava a spiegare che ciò non era vero per diversi motivi, senza molti risultati tra lo schiamazzo generale. I nemici naturali dell’olio extravergine d’oliva, come ci insegnano gli esperti, sono la temperatura, la luce e l’ossigeno. Controllare questi parametri ci consente di preservare la barriera formata dagli acidi grassi, mentre una sua rottura porta alla formazione di radicali liberi, principali responsabili dell’insorgenza di tumori. La disinformazione, invece, che è il nemico più pericoloso, si controlla con la cultura, quella che, professionisti come Maurizio Corbo, ne fanno una missione di vita. A lui va il nostro ringraziamento per la semplicità, la spontaneità e il rigore scientifico che ha saputo trasmettere ai corsisti durante le sue lezioni.

Scuola del gusto

sabato 22 marzo 2014

LE ORIGINI DELL'ANALISI SENSORIALE

L’analisi sensoriale è una disciplina scientifica impiegata per misurare, analizzare e interpretare le sensazioni che possono essere percepite dai sensi della vista, olfatto, gusto, tatto e udito. Giovedì pomeriggio, presso l'auditorium dell'Istituto Tecnico Agrario di Larino, si è tenuta la prima lezione su quest'aspetto, riguardante i parametri di qualità dell'olio extravergine d'oliva e la loro valutazione sensoriale, nell'ambito del progetto "Scuola del gusto: Un Molise Extra-Ordinario". Naturalmente, per poter allenare i sensi e conoscerne le funzionalità, parlo di professionisti, sono necessarie ore ed ore di formazione e allenamento. Con alcuni semplici principi, invece, chiunque può valutare, con un po' di esercizio, la bontà di un extravergine, ma questo lo scopriremo nel prossimo articolo, quando faremo una panoramica sui parametri di qualità da considerare, così come li ha espressi in maniera accorata Maurizio Corbo nell'ultima lezione e nella sua continua opera di sensibilizzazione sul territorio. Vediamo adesso quali sono le origini su cui si fonda questa disciplina.


Corsisti durante una degustazione di oli
Da sempre l’uomo ha cercato di approcciare il mondo esterno attraverso l’uso dei sensi, affinandone sempre più l’utilizzo, soprattutto con lo sviluppo degli scambi commerciali per valutare correttamente le merci. Chi comprava, infatti, cominciò ad assaggiare piccole quantità delle merci da acquistare per valutarne appieno le qualità, mentre chi vendeva, di contro, cominciò a stabilire i prezzi dei loro prodotti attraverso le qualità organolettiche: l’aspetto, il sapore, l’odore e la consistenza. Quest’uso commerciale dei sensi permise, quindi, la nascita di vere e proprie professioni, quelle degli assaggiatori professionisti, che già a inizio ‘900 furono da supporto alla crescita delle prime industrie agroalimentari e cosmetiche. L’impulso decisivo allo sviluppo delle tecniche sensoriali si ebbe negli Stati Uniti, nel corso della seconda guerra mondiale, dove i responsabili della ristorazione dell'esercito americano (US Army Quartermaster Food and Container Institute), avendo riscontrato che il cibo somministrato, pur essendo bilanciato dal punto di vista nutrizionale, non sempre era gradito dai militari e che il sapore ne condizionava fortemente il livello di gradimento, decisero di studiare alcune caratteristiche organolettiche per determinarne la soglia di accettabilità. Furono gettate, in questo modo, le basi per regole di rilevamento dell’accettabilità, mentre miglioravano le performance dell’esercito se era ben nutrito e soddisfatto.

Recettori olfattivi


Altro concetto significativo è stato la comprensione dell’importanza dei formulati, ossia degli ingredienti, delle loro dosi e del modo di impiegarli nel determinare le caratteristiche sensoriali dei cibi. Le industrie alimentari, all’inizio del secolo scorso, infatti, utilizzarono in modo sempre più specifico e raffinato l’analisi sensoriale per la produzione e la commercializzazione dei prodotti. In questo modo nacquero, all’interno delle aziende, delle figure professionali che diventeranno, a tutti gli effetti, arbitri della qualità, al cui acume sensoriale sarà affidata la messa a punto di un prodotto (mastro birraio, casari, degustatori di vino, olio, caffè e the). Nacquero le prime schede di valutazione, seguite dalle prime valutazioni numeriche. La crescita esponenziale di aziende e nuovi prodotti mettono, di fatto, in difficoltà questi esperti aziendali che non sono più in grado di far fronte alle nuove necessità. A tal proposito, già ad inizio anni ’50, l’Università californiana di Davis e quella del Massachusetts in Oregon, cominciarono ad organizzare i primi corsi di analisi sensoriale, mentre nasce la prima letteratura in merito. Affidarsi in modo assoluto a singoli individui e alla loro valutazione, però, diventava rischioso, in quanto, quest’ultima mantiene delle caratteristiche di soggettività che la rendono parziale e priva di rigore scientifico. Per ovviare alle caratteristiche di soggettività delle valutazioni individuali, nasce l’esigenza di sostituire l’unico l’esperto, ossia unico arbitro della qualità, con un sistema di valutazione (Panel), più controllabile, affidabile e correlabile al giudizio del consumatore. L’analisi sensoriale, per tale motivo, ha sviluppato i Sensory Testing, una metodologia formale, strutturata e codificata che dispone di strumenti attendibili applicabili a una vasta gamma di prodotti, non solo alimentari. Infatti, tale approccio è valido e applicato anche per i prodotti per l’igiene personale e della casa, oltre ai prodotti per la cosmesi.
Lingua e recettore del gusto

E’ importante porre l’accento, quindi, come questa disciplina si sia affermata come una metodologia scientifica che si differenzia dal semplice approccio sensoriale, poiché si basa su processi che non sono influenzati da fattori esterni e il cui giudizio è statisticamente significativo. L’analisi sensoriale gioca un ruolo decisivo nel controllo qualità, in particolar modo attraverso appositi test mirati alla verifica dei requisiti d’idoneità sensoriale richiesti in tutte le fasi del processo produttivo, dall’acquisto delle materie prime alle lavorazioni, fino al prodotto finito. Per tali motivi, quest'approccio, diventa uno strumento indispensabile anche nel campo di ricerca e sviluppo di nuovi prodotti, come all’applicazione di test mirati all’individuazione di prodotti aziendali le cui caratteristiche sensoriali si avvicinino maggiormente al prodotto di riferimento del relativo competitor. Lo studio delle caratteristiche organolettiche del prodotto attraverso questa metodologia scientifica rappresenta, infine, un importante strumento per la valorizzazione e la tutela delle produzioni, attraverso la stesura di un profilo sensoriale che, di fatto, rappresenta una vera e propria carta d’identità del prodotto stesso che può essere utilizzata sia per la tutela sia per la comunicazione verso il consumatore finale.

Sebastiano Di Maria


martedì 18 marzo 2014

IL PATRIARCA INDICA LA ROTTA

I Patriarchi profumano d’Oriente, con la loro autorità morale hanno condotto i popoli fuori dai deserti, naturali e spirituali. Il significato etimologico della parola greca patridrhes è “sono a capo di una stirpe”. Nell’immaginario laico appaiono invece come uomini soli, un po’ selvatici, come erano Noè e Polifemo, una sorta di Pan sovrannaturali che insegnano agli uomini i segreti della viticoltura e della caseificazione. Oggi di fronte ad una vite di 80-100 anni si rimane sempre un po’ sorpresi e pieni di ammirazione. È un incontro peraltro sempre più raro nella viticoltura europea, mentre è più facile avere la fortuna di trovare viti molto vecchie nel vicino Oriente o nelle zone della viticoltura più antica dell’Australia. Nella viticoltura prefillosserica si ricordano numerosi esempi di piante che avevano anche 300-400 anni: la parte alta del vigneto di Clos de Vougeot dove le viti ai tempi della Rivoluzione francese avevano 400-500 anni. Ancora oggi si ricorda una vite presente nel Collegio dei Gesuiti a Reims che ha più di 300 anni o la vite di Versoaln, un vitigno ormai scomparso, presente in AltoAdige nel paese di Prissiano, di oltre 350 anni.
 
Viti allevate ad alberate nel casertano (foto Sebastiano Di Maria)
 
In Campania sulla costiera amalfitana ed in Irpinia non è difficile incontrare ceppi di Tintore, di Aglianico o di Sirica di età superiore ai 250 anni. Viene spontaneo chiedersi da dove deriva questa longevità, ma non è possibile dare una risposta univoca: oltre alle condizioni particolari dello sviluppo radicale, la mancanza dell’innesto ha un ruolo certamente significativo assieme all’equilibrio vegeto-produttivo che quella pianta ha avuto nel corso della sua vita. La viticoltura italiana, soprattutto quella di qualche lustro fa, era ricca di Patriarchi, ma le esigenze economiche connesse alla gestione dei vigneti ed il rapido mutamento dei gusti dei consumatori hanno accelerato la loro scomparsa. Cosa fare dei Patriarchi che rimangono? In primis sollevare il problema della loro scomparsa dimostrando che questa rappresenta una perdita grave per la nostra viticoltura, soprattutto per le informazioni che possiamo trarre dal genoma delle piante. E come per la Syrica, per la quale si giunti alla scoperta dei suoi genitori solo attraverso il Dna di alcune queste vecchie viti, chissà di quanti altri vitigni, oggi in coltivazione, si potrebbe scoprirne le antiche origini.
 
Fonte: Tre Bicchieri Gambero Rosso (Articolo a firma del Prof. Attilio Scienza)
 
 

mercoledì 12 marzo 2014

CAMBIAMENTI CLIMATICI E INFLUENZA IN VIGNETO

Dal 1 al 3 marzo, negli spazi espositivi della Camera di Commercio di Chieti, si è svolta la seconda edizione dell’Anteprima Montepulciano d’Abruzzo, un concentrato d’incontri d’affari con stampa, opinion leader e buyers da ogni dove, degustazioni guidate e seminari tematici, al centro il territorio, il Montepulciano e gli altri autoctoni. Rispetto alla prima edizione, la manifestazione non solo ha fatto registrare un’importante evoluzione nelle aziende espositrici, ma ha anche decretato, come novità assoluta, l’apertura al territorio, ai suoi prodotti, alla sua cucina.Una meticolosa attività di selezione, infatti, c’è stata alla base della scelta dei mercati di riferimento, cercando di preferire tutti quegli elementi che possano trasmettere al consumatore finale, attraverso il vino, la vera espressione del territorio abruzzese. Concetti espressi con chiarezza da Silvio Di Lorenzo, presidente del Centro Regionale delle Camere di Commercio dell’Abruzzo, che ha voluto rilevare come “dedicare una manifestazione al Montepulciano significhi rimarcare il peso e il ruolo che ha questo vitigno nella riconoscibilità della Regione nel mondo”. Lo stesso dirigente, poi, ha ricordato i numeri importanti della denominazione, affermando che “con i suoi 900.000 ettolitri, rappresenta il 75% del totale regionale”.

Il Colonnello Laurenzi durante la relazione (foto Sebastiano Di Maria)

Tra gli appuntamenti in programma, di particolare interesse, sia per i relatori presenti, sia per l’attenzione della platea vista l’attualità del tema, è stato il convegno sull'influenza dei cambiamenti climatici sui vigneti. Diversi i temi trattati, tra cui le conseguenze nella pratica enologica, fino all'evoluzione del gusto dei consumatori in funzione di tali variazioni. Tra i relatori, il volto televisivo del meteorologo Francesco Laurenzi che, attraverso un’analisi storica, ha precisato che “già nel Medioevo si coltivava la vite nell'attuale Inghilterra, evoluzione confermata anche dalle attuali tendenze climatiche, figlie dell’attività dell’uomo, come l’effetto serra, che porteranno a uno spostamento delle zone subtropicali verso latitudini superiori”. Lo stesso Laurenzi, poi, pone l’accento su un aspetto forse trascurato: “Gli effetti economici del cambiamento climatico influiranno in maniera decisiva sul mercato del turismo, dove quello agroalimentare ha superato quello dell’arte”. “I dati raccolti in Abruzzo negli ultimi decenni – spiega Bruno Di Lena, responsabile del servizio meteo regionale – hanno fatto registrare un anticipo delle fasi fenologiche e quindi della vendemmia, in cui l’effetto più preoccupante è un disaccoppiamento tra la maturazione tecnologica e quella fenolica, con tutte le difficoltà che questo porta in termini enologici”.

Anteprima Montepulciano d'Abruzzo (foto Sebastiano Di Maria)

Sulla stessa lunghezza d’onda l’enologo Francesco Bordini, che ha poi rilevato la necessità di “mettere in atto tutte quelle pratiche agronomiche e non, in modo che la vite non risponda a queste dinamiche ambientali, come una maggiore copertura, e in tal senso le pergole sono una risorsa, utilizzando vitigni tipici di un territorio che si adattano prima ai cambiamenti climatici, o prodotti naturali per proteggere i vigneti, come caolino e bentonite”. L’intervento più accorato è stato quello di Francesco Paolo Valentini, storico produttore, che ha ammesso la “difficoltà oggettiva, per un artigiano del vino”, come ama definirsi, “di vinificare con uve non perfettamente equilibrate, mentre va preso atto di quest’evoluzione”, continua lo stesso produttore, “che va comunicata e non nascosta, soprattutto per tutelare l’importante patrimonio viticolo abruzzese”.

Sebastiano Di Maria
Articolo pubblicato sul Corriere Vinicolo


sabato 8 marzo 2014

CULTURA: L'EXTRA DELLA QUALITÀ

Il modulo sull’elaiotecnica e sulla qualità dell’olio, del progetto “Un Molise Extra-Ordinario”, non poteva avere un battesimo migliore; la prima lezione, infatti, è stata tenuta da Antonella De Leonardis, ricercatrice della Facoltà di Agraria dell’Università del Molise, nonché Professore incaricato di tecnologia delle sostanze grasse presso lo stesso ateneo. Particolarmente apprezzata, dai sempre numerosi “studenti” presenti, la sua capacità di coniugare il rigore scientifico con quelli che sono gli aspetti tecnologici della filiera, con le relative implicazioni di processo e gli effetti sulla qualità dell’olio, ricordando che lo stesso altro non è che una “spremuta di frutta”, portando degli esempi concreti, toccati con mano, immediatamente dopo, nella visita didattica al frantoio di Bruno Mottillo a Larino.  Uno degli aspetti su cui si è soffermata la relatrice, e su cui ha insistito a più riprese, è il ruolo dell’acqua nel processo di estrazione dell’olio d’oliva, e di come la stessa influisca sulle qualità del prodotto finale. In effetti, le drupe contengono ben il 50-60% di acqua, mentre i semi di girasole, che danno uno degli oli di semi più diffusi, ne hanno appena il 5-10%; questa differenza si traduce in una diversa conservabilità dei relativi oli (alta per gli oli di semi, bassa per quello d’oliva).

Antonella De Leonardis durante la lezione
Bruno Mottillo durante la visita presso il suo frantoio

Uno degli effetti positivi dell’abbondante presenza di acqua nelle drupe, è consentire la separazione fisica dell’olio-mosto dalla pasta per il suo effetto dilavante o di trascinamento, oltre ad arricchire l’olio di sostanze idrosolubili come i polifenoli (abbondanti nella polpa), gli antiossidanti che preservano le caratteristiche qualitative del prodotto e che tanto fanno bene alla salute. Il concetto che c’è alla base del processo di estrazione dell’olio è il passaggio da olio/acqua della drupa (goccioline di olio disperse in acqua) ad acqua/olio (goccioline di acqua disperse nell’olio), favorito dall'agitazione e dall'attività di emulsionanti naturali, le lecitine, fosfolipidi molto abbondanti nelle olive. Purtroppo, però, per aumentare la separazione, e quindi formare goccioline di olio sempre più grandi (coalescenza), bisogna rompere le emulsioni attraverso la gramolazione - processo di mescolamento della pasta in vasche inox con intercapedine ad acqua tiepida, 25-30 °C - che, inevitabilmente, comportano, attraverso lo scambio di ossigeno con l’esterno, reazioni enzimatiche che determinano la diminuzione della qualità dell’olio, come un aumento dell’acidità o la possibilità di fermentazioni indesiderate. Un miglioramento in tal senso sono state le vasche chiuse, che limitano il contatto con l’ossigeno, e ancor di più quelle con l’utilizzo dell’azoto, un gas inerte che protegge il prodotto, solo ad appannaggio di grandi impianti, purtroppo, visto il costo sostenuto. A ogni buon modo, sono da evitare, come sostenuto dalla docente, per quanto possibile, i contatti con l’aria, tenendo conto anche degli effetti della temperatura, su cui si potrebbe scrivere un capitolo a parte, che va a incidere negativamente sulla qualità dell’olio, in particolare sull’abbattimento della concentrazione delle sostanze fenoliche e sul contenuto di aromi.

Inversione di fase necessaria per separare l'olio (dalla presentazione della lezione)

La fase successiva è stata quella di analizzare e vivisezionare le singole fasi del processo di lavorazione delle olive, in modo da individuarne gli effetti sulla qualità dell’olio. La qualità del prodotto iniziale è, senza dubbio, uno degli elementi essenziali per ottenere un ottimo prodotto. Il momento ottimale per la raccolta è quando c’è un’invaiatura del 40-50% del prodotto, dove si ha il picco massimo d’inoliazione nella drupa, andare oltre non ha senso, mentre decisivo è anche lo stato sanitario delle olive, che vanno molite in breve tempo, previa conservazione in recipienti areati e al riparo dal sole. Le olive danneggiate o mal stoccate, infatti, portano a un aumento dei perossidi, dell’acidità e degli etil esteri (fermentazioni anomale), mentre se stramature comportano la perdita di fenoli e quindi, di conseguenza, un olio più “dolce”, senza aromi e meno serbevole. Sulla qualità dell’olio influiscono anche le operazioni preliminari, come defogliazione e lavaggio, sempre consigliate. Sicuramente più complesso è il discorso sulla prima fase della lavorazione, ossia la frangitura, dove si hanno la rottura delle drupe e la preparazione della pasta. L’effetto di tale operazione, sia con i frangitori del sistema continuo o con le molazze del sistema discontinuo, ha come obiettivo la rottura della polpa e, quindi delle cellule, dove si trova la maggior parte dell’olio, 75-85%, localizzato all'interno dei vacuoli, mentre solo il 15-20% si trova nella polpa. Ciò è possibile solo rompendo la parete cellulare, azione svolta dai piccoli frammenti del nocciolo che lacerando i tessuti, provocano la fuoriuscita dell’olio e rendono la pasta più omogenea, oltre all’attività di enzimi pectolitici, abbondanti nel seme, che rompono la parete cellulare. Naturalmente, questi enzimi, possono anche portare a effetti indesiderati, come processi ossidati e idrolitici. La fase successiva di gramolatura, come già accennato in precedenza, ha l’obiettivo di rompere l’emulsione per via enzimatica e meccanica. I punti critici sono l’azione enzimatica, che comporta un aumento dell’acidità, e il contatto con l’aria che aumenta i perossidi, oltre all'effetto della temperatura e del tempo di estrazione. Insomma, un “male necessario” che va accuratamente valutato e rapportato al tipo di cultivar.

Vasche per la gramolatura (foto Sebastiano Di Maria)

La separazione dell’olio mosto dalla pasta avviene con le presse nel sistema tradizionale, con i decanter nel sistema continuo, di cui esistono modelli a tre fasi (tricanter), a due fasi e intermedi. La differenza sta nell'utilizzo o meno di acqua aggiunta nel processo di estrazione, con la produzione (tre fasi) o meno (due fasi) dell’acqua di vegetazione, il refluo che va opportunamente smaltito, e su cui si sta lavorando per limitarne l’impatto ambientale perché ricco di fenoli. Come già detto in precedenza, l’acqua porta anche a un “dilavamento” delle sostanze idrosolubili, in particolare antiossidanti, che vanno irrimediabilmente perse. Quella dell’estrazione è un’altra fase delicata, se vogliamo, soprattutto se molti ancora oggi, forse più per una questione affettiva ed emozionale, fanno uso del sistema tradizionale con le presse, che, come dimostrato dai fatti, hanno diversi punti critici (fiscoli, tempi lungi, contatto con l’aria, maggiori costi di personale) che si traduce in difetti sull’olio, facilmente individuabili all’esame gusto-olfattivo, come di fiscolo, avvinato, fermentato, rancido e di acque di vegetazione. Lo stesso Bruno Mottillo, da cui i corsisti hanno potuto apprendere le differenze delle due tipologie d’impianto di cui è dotato il suo frantoio, non senza una punta d’ironia, ha espresso molte perplessità sulla qualità degli oli ottenuti dal sistema tradizionale, anche se ancora molto richiesto dalla clientela. 

Differenze tra le due tipologie di estrazione continua (dalla presentazione della lezione)
Differenze tra sistemi di estrazione (dalla presentazione della lezione)

Dalla lezione, e dalla successiva visita aziendale, si è capito che, per ottenere un olio extravergine di qualità, amaro e piccante, come recita lo slogan coniato in una campagna di sensibilizzazione dell’Arsiam, bisogna preservare al massimo le caratteristiche qualitative delle olive, essendo l’olio, un prodotto di estrazione, evitando il contatto con l’ossigeno e operando in maniera opportuna nelle delicate fasi di gramolatura ed estrazione. La qualità deve essere l’unico l’obiettivo da perseguire; tanto si è fatto, ma ancora tanto c’è da fare, e attività divulgative, convegni, seminari e corsi sono importanti per avvicinare il consumatore, ma anche i produttori, ai canoni di qualità che possono far fare il salto definitivo al comparto e alla nostra piccola regione. 

Scuola del gusto
scuoladelgustolarino@gmail.com


lunedì 3 marzo 2014

LA ZONAZIONE VITICOLA PER VALORIZZARE LUOGHI E VINI

Questo è il periodo delle anteprime nel mondo del vino, ossia appuntamenti con stampa specializzata, opinion leader, blogger e buyers per far degustare l'ultima annata, spesso spillata direttamente dalla cisterna, ma anche le produzioni aziendali. Proprio ieri siamo stati all'Anteprima Montepulciano d'Abruzzo, nelle vesti di inviati per il Corriere Vinicolo, storico organo d'informazione dell'Unione Italiana Vini, proprio per carpire le novità più interessanti, comprende le tematiche più pressanti della filiera, ma, sopratutto, ascoltare e dialogare con i produttori. Non solo vino, quindi, ma anche le scelte per la promozione aziendale, le difficoltà del mercato e le iniziative in cantiere. Tra le aziende con cui abbiamo interloquito, c'è una ricadente nella Doc Tullum, che insiste nel territorio del Comune di Tollo (CH), la prima che sta completando un processo di zonazione viticola, un sistema di gestione e caratterizzazione, che ha lo scopo di utilizzare al meglio il patrimonio viticolo e il terroir, ma, soprattutto, cosa che molti sottovalutano, come abbiamo potuto constatare parlando con il produttore, valorizzarne le peculiarità, soprattutto in chiave mercato. Come? Lo spiegherò al più presto con un articolo a tema, avendo avuto anche la fortuna di poter studiare più tipologie di applicazioni in tal senso. Intanto, come è ormai consuetudine, metto questa interessante "pillola di Scienza", che in poche parole spiega quelle che sono le prerogative e gli sviluppi di questa applicazione, da quello che è il massimo esperto in materia, avendo curato, con il suo gruppo scientifico, zonazioni nelle più importanti regioni viticole italiane.

Degustazione di vini all'Anteprima Montepulciano d'Abruzzo (foto Sebastiano Di Maria)
Se analizziamo il termine “eccellenza”, con il quale si definisce il livello della qualità di un vino, ci rendiamo conto che questo può essere attribuito solo a pochi vini che sono il risultato di un progetto di produzione che si realizza controllando ogni sua fase nei minimi dettagli. Il verbo “eccellere” deriva dal latino ex-cellere, che vuol dire “spingere fuori”, non identifica quindi un livello più alto nello stesso ambito, ma lo “spingere fuori” significa entrare in un ambito diverso. L’eccellenza si declina su due parole chiave, il terroir ed i crus. Il terroir viticolo è un concetto recente che assolve a necessità pratiche ed ideologiche. Sul versante ideologico
deve riuscire a persuadere il consumatore dell’originalità di alcuni suoi vini, prodotti in ambiti delimitati, su quello pratico ha invece la finalità operativa di favorire una migliore espressione qualitativa del vitigno in determinate condizioni pedo-climatiche

Schema di zonazione viticola (elaborazione Sebastiano Di Maria)

La definizione tradizionale di terroir è però monodimensionale in quanto basata essenzialmente sugli effetti del suolo e del clima, sul vino, in una scala spaziale ridotta, mentre appare sempre più importante il ruolo dell’uomo. La zonazione viticola è soprattutto uno strumento scientifico per caratterizzare e conoscere il rapporto tra i vitigni e gli ambiti pedo-climatici dove sono coltivati. Inoltre con le conoscenze che apporta ai meccanismi di funzionamento del terroir, consente di valutare indirettamente le risorse naturali dei diversi ambienti del territorio indagato e di adeguare di conseguenza le somministrazioni degli imput energetici (acqua irrigua, concimi, antiparassitari, etc) ai reali fabbisogni delle piante. È il primo passo per una applicazione diffusa delle tecniche di proximal sensing per giungere alle mappe di prescrizione che vengono realizzate in funzione del vigore, della produttività e della struttura della chioma e che consentono di intervenire di anno in anno in modo differenziato a seconda dell’andamento stagionale, a livello agronomico (diradamenti, cimature, sfogliature, etc) e negli apporti di concimi ed antiparassitari in funzione delle reali necessità della coltura.

Fonte: Gambero Rosso Tre Bicchieri (Articolo a firma del Prof. Attilio Scienza)


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