sabato 28 aprile 2012

UN'OCCASIONE PERSA

Come avevo in parte anticipato, con questo articolo si chiude il discorso sul vino biologico, sperando di aver fornito, in maniera organica e comprensibile, un aiuto concreto a capire quali sono gli sviluppi e le implicazioni della nuova normativa e forse, cosa più importante, quali sono le applicazioni di cantina che concorrono nella determinazione qualitativa di un vino in generale. Non mi stancherò di ribadire che non si tratta di un articolo puramente tecnico, ma bensì di un compendio di un mondo particolarmente complesso, come quello enologico, con l’obiettivo di educare ad un consumo consapevole.
La problematica fondamentale nei vini in generale, ed in particolare per quelli biologici, è l’utilizzo dei solfiti durante la vinificazione. Come già avevo anticipato nel primo articolo a tema, questa normativa non ne ha di fatto ridotto in maniera sostanziale l’impiego, perchè in definitiva c’è una differenza di appena 20 mg/litro tra i biologici e i convenzionali (limite max di 180 mg/litro contro 200 mg/litro per un vino rosso). Ma il dato più importante è che tale limite non viene quasi mai raggiunto nel caso di utilizzo di uve sane, anzi, è abbondantemente inferiore; il problema sussiste per produzioni di basso livello qualitativo o nel mercato dei mosti, movimentati e strapazzati in autocisterne (acquistati da altri e poi imbottigliati a nome proprio). E’ inutile nascondere che l’aggiunta dei solfiti porta indubbi vantaggi. Grazie alla sua attività antimicrobica e antiossidante, nel processo di vinificazione, toglie l’enologo da pericolosi imbarazzi. Positiva è l’azione selettiva svolta nei confronti dei lieviti, inibendo gli apiculati (quelli scadenti, per intenderci), poco resistenti alla stessa, in favore degli ellittici (Saccaromyces cerevisiae) contenuti nelle colture liofilizzate usate generalmente in cantina, ma anche l’estrazione di sostanze coloranti, l’illimpidimento dei mosti e la sua attività antiossidante. Di fronte a questa validità d’impiego, pur riconoscendo la tossicità di questi composti sul consumatore, la normativa vigente ne fissa i limiti, come abbiamo visto, e ne obbliga la dicitura in etichetta “contiene solfiti”. I limiti consentiti, aimè, sono ancora troppo alti, soprattutto per un vino biologico e tantomeno esiste la possibilità, più che remota, di indicarne in etichetta la quantità presente.



Il principio di fondo di questa normativa è la completa esclusione delle molecole di sintesi dal processo di vinificazione consentendo, di fatto, l’utilizzo di chiarificanti minerali ed organici, lieviti selezionati, enzimi, tannini ecc., ossia tutto ciò che è di origine naturale. In realtà i produttori biologici e biodinamici chiedono delle norme più restrittive in proposito, in modo che si rispetti maggiormante la natura del prodotto e che non siano costretti, per certificarne la bontà, di metterci solo la propria faccia (promozione). Di seguito sono elencati alcuni dei coadiuvanti e additivi ammessi per il vino biologico, purchè di origine naturale, come stabilito dalla normativa UE n° 203/2012.
  • Perlite, cellulosa e terre di diatomee (utilizzati per la filtrazione sterile del vino)
  • Lieviti selezionati (ottenuti da materie prime biologiche, se disponibili)
  • Fosfato diammonico e cloroidrato di tiamina (utilizzati come attivanti e coadiuvanti della fermentazione, cioè nutrimento per i lieviti)
  • Carbone per uso enologico (chiarificante, decolorante)
  • Gelatina, proteine vegetali, colla di pesce, ovoalbumina, caseina, bentonite, diossido di silicio, enzimi pectolitici (utilizzati nelle operazioni di chiarifica dei mosti)
  • Acido lattico e acido tartarico (utilizzati per correggere l’acidità, aumentandola)
  • Carbonato di calcio, tartrato neutro di potassio e bicarbonato di potassio (utilizzati per correggere l’acidità, diminuendola)
  • Batteri lattici (per lo svolgimento della fermentazione malolattica – disacidificazione biologica)
  • Acido L-ascorbico (utilizzato come stabilizzante per la sua attività antiossidante)
  • Tannini (stabilizzazione proteica e potere antiossidante)
  • Acido metatartarico (per la stabilizzazione tartarica dei vini)
  • Gomma arabica (azione antiossidante, da morbidezza e rotondità al vino)

E’ inutile dire che, tranne per alcuni aspetti forse marginali, la normativa consentirà di produrre vino biologico potendo contare su molte delle pratiche enologiche per la vinificazione di uve “convenzionali”. Oltre all’aspetto solfiti, sicuramente il più controverso per i motivi sopra citati e per quelli citati negli articoli precedenti, la possibilità di poter attingere quasi a piene mani dal manuale di enologia, consente a produttori che si affacciano per la prima volta sul mercato del biologico, probabilmente solo per cogliere nuove opportunità di mercato, di ottenere vini più “rotondi” e più “ruffiani” (graditi al consumatore), mettendo in cattiva luce il produttore biologico serio che trova difficoltà a gestire le varie operazioni, rischiando di ottenere un vino più scontroso e poco gradito al consumatore indottrinato.
In definitiva, anche se la normativa è in linea con la definizione di biologico come per altri settori e segna comunque un passo importante da questo punto di vista, si avverte un certo malumore tra i produttori storici in quanto si è trattato di un’occasione persa, secondo gli stessi, per segnare un solco netto tra le tipologie di vino consentendo, di fatto, l’utilizzo di gran parte delle tecniche enologiche utilizzate per i vini “convenzionali”.

Sebastiano Di Maria
molisewineblog@gmail.com

martedì 24 aprile 2012

QUANDO LA DEGUSTAZIONE DIVENTA POESIA: UN AFFLATO VULCANICO PODEROSO, APPARENTEMENTE EMPIREUMATICO




Nel percorrere le sue rotte “scure” (pure nel colore, nero melanzana) nessun particolare verrà tralasciato, tanta la chiarezza. D’altro canto l’ostentazione non abita qui. Casomai la naturale, incontenibile vitalità di un vino forte, d’animo e d’attributi, che intende parlar chiaro. La timbrica aromatica è intensa, caratterizzata, profonda: brace di camino spento, terriccio, “massicciata di ferrovia” e tanto pepe ad emergere da un fruttato maturo, ben “impresso”, senza sbrodolature, dai risvolti affumicati. Un afflato vulcanico poderoso in questo naso qua, apparentemente empireumatico, per la verità solo e soltanto fedele traduttore di una terra che non puoi non immaginare senza quegli umori, senza quegli odori. Ti illudi stia tutta qui, in un naso di carnosa (e carnale) consistenza. Di quelli che non dimentichi.
Al palato un’energia superiore. E una sapidità salmastra ad allungare le trame. Senza che mai si debordi, con un senso della freschezza e dell’equilibrio ammirevoli, nonostante le apparenze. Al punto da sembrare un vino quasi stilizzato nella sua luminosa rappresentazione. Nel frattempo la sua avvincente progressione ti conquisterà a nuove intimità. Ti parlerà di tannini sontuosi (ma ben estratti), erbe macerate e spezie fini. Ti lascerà con una scia di cenere e balsami.


Fonte: L'AcquaBuona, Falerno del Massico Riserva Tuoro 2008 – Volpara


Balanço - More (1999)

NB Per una lettura migliore della scheda si consiglia questo brano come sottofondo

mercoledì 18 aprile 2012

TINTILIA: DALLE ORIGINI AD OGGI

Anche il Molise, una delle più piccole realtà vitivinicole del panorama nazionale con appena 5900 ha di superficie vitata (dati Istat 2010), si è proposta alla ribalta del mercato nazionale e non attraverso una nuova identità acquisita con l’individuazione di un proprio vitigno autoctono, intimamente legato al prorio territorio e alle tradizioni storico-culturali, il Tintilia.
Ma andiamo per gradi e cerchiamo di capire come il Tintilia sia passato dall’anonimato o, ad essere più precisi, dall’essere identificato come sinonimo di Bovale sardo e Bovale grande (gruppo delle tintorie) secondo il Registro Nazionale dei Vitigni, fino a pochi anni or sono, per arrivare al disciplinare DOC “Tintilia del Molise”, contenuto nella Gazzetta Ufficiale n.139 del 17 giugno 2011 e approvata con il decreto ministeriale del 1° giugno 2011.


Mosaico di una Domus rinvenuta a Larino con tralci di vite, grappoli e pampini

Per quanto riguarda le origini, l’ipotesi più accreditata fino a pochi anni fa, era quella che attribuiva al vitigno genesi spagnole, introdotto nel Contado di Molise alla fine del ‘700, durante il dominio borbonico. A supporto di questa teoria, nei primi anni di studio e ricerche in tal senso, ci si basò sull’etimologia della parola tintilia in quanto, in spagnolo, l’aggettivo “tinto” significa rosso, caratteristico di vini ricchi di colore presenti nella parte interna e più elevata della Spagna in quel periodo. Solo qualche anno fa, grazie al lavoro instancabile di Michele Tanno, agronomo e vero motore della riscoperta di tale vitigno, è stato rinvenuto un manoscritto risalente al 1810, dove viene menzionata la vite Tintiglia, con il suo nome originario. Si tratta di una memoria di Raffaele Pepe, agronomo di Civitacampomarano e fratello di Gabriele, patriota risorgimentale, che in un rapporto sulla situazione ampelografica e di specie botaniche presenti nella nuova provincia di Molise e sulla necessità del miglioramento dell’assortimento varietale, chiese di avere delle “marze forastiere” della vite “Le Tenturier d’Espagne = Tintiglia”. Il motivo dell’introduzione di tale vitigno, sempre secondo tale manoscritto, era necessaria soprattutto nelle zone interne della regione per dare struttura e colore a vini che ne mancavano, tipici di quell’epoca. Testimonianze in tal proposito si hanno dalla Casa Vinicola Janigro di Montagano che, oltre al tradizionale Moscato, imbottigliava un vino Sannio Rosso a base di Tintiglia. Proprio questo vino, prodotto nel 1890, fu premiato con la medaglia d’oro alla mostra vinicola di Parigi del 1900.
Il Tintilia ebbe una crescita decisa, soprattutto nelle aree interne della regione, fino a quando non fù necessario “ricostruire” i vigneti dopo l’infestazione filloserica di fine ‘800 che comportò, oltre ad una drastica diminuzione della superficie vitata “regionale”, passando dai 20.000 Ha di inizio secolo a 8.900 degli anni ’50, il reimpianto di nuovi vigneti e l’utilizzo di nuove varietà.
Il declino definitivo del vitigno ha origine dalla metà del secolo scorso. Dopo la riforma fondiaria, infatti, ci fu un vero e proprio abbandono della coltivazione della vite nelle zone interne, dove il Tintilia aveva il suo habitat naturale, per una riconversione alla coltivazione di cereali ed oleaginose. Nel frattempo la viticoltura si spostò sulle colline della bassa valle del Biferno, dove si diffuse l’allevamento a tendone, esportato dal vicino Abruzzo da agricoltori che si trasferirono nella nostra regione nel corso dei decenni. Naturalmente questo portò a produzioni quantitative che ben si adattavano con le tendenze di mercato del momento, sposate anche dalla politica vitivinicola regionale che ne incentivò l’espansione.


                  
              Grappolo di Tintilia

Grappolo di Bovale grande

Con la necessità di dare nuova linfa al mercato dopo lo scandalo del vino al metanolo e dall’esigenza di dare un’identità enologica alla regione, grazie all’impegno di una manciata di uomini illuminati, è stato possibile, grazie allo studio di parti del DNA (microsatelliti) del poco materiale vegetale a disposizione, la distinzione genetica del vitigno Tintilia dal Bovale grande e Bovale sardo, l’ultimo passo per poterlo iscrivere come nuova varietà nel Registro Internazionale dei vitigni coltivati. Il 18 Maggio del 1998 è stata riconosciuta la Denominazione di Origine Controllata “Molise” o “del Molise”, che si è andata ad affiancare a quella storica “Biferno”, nel cui disciplinare compariva anche la denominazione Tintilia, riservata al vino ottenuto dalle uve del suddeto vitigno per almeno l’85%. In realtà, questo è stato il primo passo verso il riconoscimento della DOC “Tintilia del Molise” avvenuto, come già anticipato, dopo parere favorevole del Comitato nazionale per la tutela e la valorizzazione delle denominazioni, con D.M. del 1° giugno 2011. Del disciplinare e delle relative problematiche ne parleremo nel prossimo capitolo.

Sebastiano Di Maria
molisewineblog@gmail.com


martedì 17 aprile 2012

UNA SCELTA CHE DISORIENTA

In queste ore si apprende che l'esecutivo di Palazzo Magno, pensando di venire incontro alle esigenze dei ragazzi e del personale scolastico, avrebbe dato il via ad un progetto preliminare teso a creare un polo scolastico, ubicando il nuovo Istituto Agrario in contrada Cappuccini.
In realtà sulla localizzazione del nuovo edificio scolastico le indicazioni sono esattamente di segno opposto poiché in zona Cappuccini mancano i terreni necessari per l'attività didattica tipica di tale scuola. Infatti il corpo docente, gli studenti e gran parte della popolazione sono favorevoli ad una soluzione che preveda la costruzione della nuova sede nell'area di proprietà della Provincia in adiacenza al Villino Petteruti Romano, sede storica dell'Istituto Agrario.


La dirigenza dell'istituto, da sempre, ha sostenuto con forza tale tesi. Ricordiamo che il compianto Dirigente Scolastico, Prof. Giovanni Luccitelli, con tenacia confutò i presunti impedimenti archeologici, sismici, idrogeologici con uno studio puntuale, fra l'altro elaborato dai docenti e dagli studenti dello stesso istituto.
Anzi gli studenti si sono anche dilettati a progettare la loro scuola con delle tavole che sono state sottoposte all'Amministrazione Comunale e a quella Provinciale dell'allora presidente D'Ascanio.
L'amministrazione Comunale ha, più volte, garantito il suo sostegno al progetto dei giovani studenti dell'ITAG di Larino non facendo mancare una sua deliberazione favorevole all'edificazione sul sito originario e, solo, in subordine in località Cappuccini. Ha avuto un ripensamento, come il comunicato stampa della Provincia farebbe pensare, o cos'altro?
L'Istituto Agrario ha una sua tipicità che spesso, in buona fede, viene dimenticata da chi è chiamato a fare delle scelte che lo riguardano. Le Scuole Agrarie fanno della ricerca il loro punto di forza la quale, però, necessita della continua verifica, c.d. in Pieno Campo, dei risultati raggiunti.
Potrà sembrare strano, ma più che della “compagnia” di un polo scolastico, l'Istituto Agrario ha bisogno della “solitudine” della campagna!
Senza parcelle sperimentali, semenzai, serre, frutteti, vigneti ed oliveti l' Istituto Agrario da fucina di tecnici ed operatori dell'agricoltura si trasformerebbe in un mero diplomificio nozionistico alla lunga destinato a chiudere per carenza di iscrizioni. Chi vorrà frequentare una scuola che non può dare la necessaria formazione tecnico-pratica?
Se la bellissima idea di creare nell'azienda agraria della scuola, sita nelle Piane di Larino, un Campus affiancando all'ITAG, un Convitto e l'Università dell'Olio e dell'Olivo è, oggi, difficilmente praticabile per il periodo di austerity e ristrettezze economiche che stiamo attraversando, almeno bisogna consentire agli studenti di poter svolgere adeguatamente le attività didattiche.
L'ITAG costruito affianco al Villino Petteruti Romano oltre a garantire la campagna sufficiente per la didattica, diverrebbe una cerniera tra il Pian San Leonardo ed il Centro Storico, recuperando i terreni prossimi al Vallone della Terra che potrebbero diventare fruibili, come area verde, per l'intera comunità larinese.
Infine, non va sottovalutato il risparmio di costi e di tempi per la pubblica amministrazione poiché, a differenza dei terreni siti in zona Cappuccini, non si dovrebbe procedere ad esproprio.

Vincenzo Notarangelo (Presidente Associazione ex allievi)

venerdì 13 aprile 2012

QUANDO LA VERGINITA' E' ANCORA UN VALORE

Se c’è una parte dell’agroalimentare italiano che sorride, con un record dell’export mai registrato in precedenza, come quello enologico, dall’altra parte c’è un vero e proprio allarme, mi riferisco a quello oleario, altro simbolo del made in Italy, vittima di un’invasione massiccia di olio estero. In effetti, secondo stime della Coldiretti, la quantità in Italia di olio di oliva (non extravergine?) estero ha raggiunto il massimo storico di 584mila tonnellate e ha superato la produzione nazionale, in calo nel 2011 a 483mila tonnellate. Il risultato di questo sorpasso è che, allo stato attuale, la maggioranza delle bottiglie di olio presenti sugli scaffali provengono da olive straniere senza che questo sia sempre chiaro ai consumatori. Secondo questi dati l'Italia risulta il primo importatore mondiale di olio che per il 74% viene dalla Spagna, il 15% dalla Grecia e il 7% dalla Tunisia. Gli oli di oliva importati in Italia vengono, di fatto, mescolati con quelli nazionali per acquisire, con le immagini in etichetta e sotto la copertura di marchi storici, magari ceduti all'estero, una parvenza di italianità da sfruttare sui mercati nazionali ed esteri. Tale tendenza è confermata, infatti, secondo un’analisi di Coldiretti/Eurispes, dal fatto che il 19,1% dell'olio extracomunitario importato in Italia nel 2010 è stato destinato alla provincia di Lucca, mentre il 10,1% alla provincia di Genova dove si trovano importanti stabilimenti.


Secondo Massimo Gargano, presidente di Unaprol (consorzio olivicolo italiano), l’olio Delizia Carapelli da 750 ml, venduto a 0,99 centesimi presso Despar, è un “banale e volgarissimo lubrificante”. Con l’iniziativa “Per il futuro dell'olio italiano”, promossa in sinergia con la Fondazione Symbola e Coldiretti, le tre organizzazioni hanno presentato una proposta di legge dal titolo “Norme sulla qualità e la trasparenza della filiera degli oli di oliva vergini”. Tante le questioni affrontate nella legge, dalla lotta alle frodi alla leggibilità dell'etichetta dove informazioni importanti come l'origine “sono relegate in un angolino, al tema dei livelli degli alchil-esteri”, ha proseguito Gargano, fino al confronto tra “una bottiglia venduta a 0,99 centesimi in grado di generare reddito e i costi di produzioni di olio in Puglia, per esempio, che ammontano a 3,59 euro al litro”.
Ma cerchiamo di capire quali sono le novità essenziali che si vogliono apportare con questa proposta di legge, a tutela delle nostre denominazioni. Il primo aspetto riguarda l’etichetta, che deve essere chiara e contenere le informazioni necessarie per una valutazione oggettiva da parte del consumatore. In particolar modo, deve essere chiara l’origine dell’olio oltre alla possibilità di definire anche eventuali miscele con oli provenienti da altri stati. Per tale motivo dovrà essere dato valore probatorio al panel-test, per le valutazioni organolettiche, in modo da smascherare gli oli difettosi in commercio, attraverso la costituzione di un apposito elenco nazionale e un irrigidimento del relativo codice deontologico.
Altro aspetto da non trascurare, sempre secondo questa proposta di legge, sono i marchi d’impresa, spesso fuorvianti sulla provenienza geografica della materia prima, che dovrà essere indicata in maniera inequivocabile. Inoltre, per favorire la trasparenza verso il consumatore, dovranno essere disponibili a tutti le informazioni sull’origine degli oli che entrano in Italia, da parte degli uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera, facendo cadere il “segreto” delle importazioni agroalimentari.
Per quanto riguarda la qualità, inoltre, potrebbe essere necessaria la determinazione di metil-esteri ed etil-esteri, che dovranno essere rese disponibili a tutti. La presenza è legata all'azione di enzimi nell'ambito del normale processo di lavorazione delle olive e, pertanto, la loro presenza è indice di fermentazioni e di un cattivo stato di conservazione delle stesse. In realtà la Comunità Europea, che dovrebbe vigilare sulla genuinità degli oli, si è messa di traverso con un regolamento, in vigore dal 1° aprile, che di fatto alza l'asticella sulla quantità di questi composti (da 75 a 150 mg/Kg) e consente, indirettamente, la vendita di oli sottoposti a deodorazione (eliminazione dei difetti e possibilità di messa in commercio anche come extravergine, purchè miscelato con vero extravergine fruttato). I dati riportati in questo articolo, poi, sono emblematici e si commentano da soli.



Ma intanto su quali aspetti, oltre a quelli legislativi, il nostro paese deve far leva per il rilancio di uno dei simboli del Made in Italy? Innanzitutto dalla consapevolezza, a mio avviso, da parte di tutti, sulla necessità di non perdere quello che rappresenta un patrimonio culturale, territoriale, di biodiversità varietale e paesaggistica del nostro paese, oltre che salutistico, aspetto da non trascurare e di primaria importanza. In primo luogo attraverso normative che tutelino, attraverso la trasparenza, sia il consumatore, soprattutto per quanto riguarda le sofisticazioni e la concorrenza sleale, e che non penalizzino oltremodo i produttori, in particolar modo quelli che puntano sulla qualità e sul legame territoriale. Secondo Ermete Realacci, presidente di Symbola, infatti, “bisogna soprattutto rafforzare il legame con i territori e con le relative eccellenze che custodiscono, puntando sulla qualità, come intrapreso da anni dal settore con successo dal settore vitivinicolo”. In realtà, rispetto al mondo enoico, ci sono diversi aspetti da considerare, in particolar modo sull’esigua quantità di dati scientifici a disposizione, figli di un’attività di ricerca pressochè inesistente se confrontata a quella viti-enologica. Ma l’aspetto più preoccupante, soprattutto per chi vive quotidianamente questa realtà, è la carenza di manodopera per la raccolta e la potatura, oggi sopperita in parte dalla dedizione in ambito familiare che va man mano scomparendo, frutto di una tradizione tramandata di generazione in generazione, e mi riferisco alle piccole realtà produttive che rappresentano la parte preponderande del tessuto olivicolo nazionale, ma anche da manodopera da parte di immigrati che tamponano, almeno parzialmente, tale necessità. La ricerca, da questo punto di vista, spinge per un’intensificazione delle produzioni con sistemi di allevamento che consentano una meccanizzazione elevata, un po’ come accade per i nostri competitor esteri, in modo da abbattere i costi in maniera concreta. D’altro canto, però, l’elevata biodiversità in ambito di cultivar, spesso fortemente legate ad un territorio anche dal punto di vista storico-culturale, oltre che la loro presenza in aree altrimenti marginali, mal si conciliano con una visione tecnicistica della coltivazione.

Scorcio di olivicoltura a Larino

Ed ecco quindi riproporsi lo stesso dualismo che esiste anche in ambito vitivinicolo, tra viticoltura di territorio ed eroica (aree marginali) rispetto a quella meccanizzata e di precisione. Inutile giraci intorno, è necessaria la presenza di entrambe le realtà produttive: da una parte “l’olivicoltura di territorio”, fatta di storia e cultura, di cui bisogna preservarne le puculiarità attraverso un’attenta e accurata opera di marketing territoriale e di valorizzazione delle produzioni, attraverso denominazioni, associazioni d’impresa e di prodotti a marchio o quant’altro possa evitare l’abbandono dell’attività agricola (i dati purtroppo dicono questo), mentre dall’altra parte una “olivicoltura industriale” e trasparente che possa far fronte, in prima battuta, alla concorrenza aggressiva di altri paesi produttori, potendo contare su costi di produzione bassi e su posizionamenti di mercato, dato i volumi, a tutto vantaggio anche per le produzioni minori, oltre che a soddisfare il consumatore meno esigente.

Sebastiano Di Maria
molisewineblog@gmail.com




martedì 10 aprile 2012

TRA FUOCHI E BUOI

Anche quest’anno l’Ecomuseo Itinerari Frentani ha strutturato un percorso per immergersi nei riti riferiti alla Madonna dell’Incoronata e relativi ai centri di Larino e Santa Croce di Magliano.
Il Percorso è stato strutturato grazie alla collaborazione dell’Azienda Agricola Paladino,dell’Agriturismo Torre Magliano di Colombo, della Parrocchia della Cattedrale di Larino e di don Costantino, dei cantori della Memoria,  della Pro loco Quattro Torri, della Pro loco di Montorio nei Frentani, dell’Associazione Musicando, di don Michele di Legge e del gruppo delle Litanie di Casacalenda guidato dal fisarmonicista Peppino Vincelli: un esempio di come un territorio possa unirsi in rete!


La festa annuncia la primavera, lo ricorda nella sua introduzione il poeta santacrocese Raffaele Capriglione nella poesia “ U luteme sabbate d’aprile: Quanne rire nciele u Sole, Quanne scoppene i  viole,  a terre se reveste se fa belle e mette nfeste, se guarnisce de verdure tutte fronne e tutte hiure…” La Madonna, con il capo ricoperto da tre corone, secondo una leggenda,  apparve agli inizi dell’anno mille, su un albero, nei pressi di Foggia ad un pastore transumante  (Strazzacappe = Scarciacappe, ovvero con cappa stracciata)  e ad un nobile. Da quel momento il culto della Madonna dell’Incoronata si diffuse rapidamente nelle regioni limitrofe. A Santa Croce di Magliano la festa si svolge con la tradizionale Benedizione degli animali, quest’anno la manifestazione ha un sapore particolare poiché la Chiesa si San Giacomo, danneggiata con il sisma del 2002, è stata da poco restaurata. Gli animali, accompagnati dai proprietari e dalla figura dello “Scarciacappe”, dopo aver effettuato tre giri intorno alla chiesa vengono benedetti. I numerosissimi  cavalieri a tracolla portano la caratteristica Treccia di Santa Croce di Magliano, lo straordinario formaggio, prodotto con pasta di caciocavallo,  viene anch’esso benedetto e consumato poi alla fine del rito. Il visitatore avrà la sensazione di vivere scene di un lontano passato immerso in un’atmosfera rurale arcaica con un” tuffo” nella pratica della transumanza. Dopo la processione sarà possibile pranzare presso l’Agriturismo Torre Magliano con il consumo di un ricco menù a base di prodotti e pietanze tipiche. A seguire presso l’Agriturismo Torre Magliano verrà effettuata una degustazione,  a cura dell’assaggiatore Dr. Gabriele Di Blasio (ONAF),dei prodotti dell’Azienda Agricola Paladino. E' prevista anche la dimostrazione della produzione della Treccia di Santa Croce: partendo dalla cagliata sarà possibile assisterete alla filatura realizzata a mano, e all’intreccio dei nastri di pasta filata, per concludere con la degustazione guidata della Treccia fresca e appassita accompagnata dai vini della cantina D'Uva e di tanti altri prodotti realizzati nell’ Azienda Agricola Paladino (per prenotazioni pranzo e degustazione: Azienda Agricola Paladino:0874729928, Agriturismo Torre Magliano di Colombo: 0874728536).


Alla degustazione interverranno anche i Cantori della Memoria e l’Ecomuseo Itinerari Frentani con letture di poesie di Raffaele Capriglione, il racconto di aneddoti e storie e la trattazione di altri elementi  riconducibili all’oralità popolare. Chi seguirà il percorso dell’Ecomuseo Itinerari Frentani si sposterà in serata a Larino per vivere intorno ai Fuochi da “Madonne Ncuerenate” l’atmosfera di festa. In particolare intorno al fuoco di Piazza Santa Maria verranno eseguiti, come da tradizione,  in compagnia del maestro Franco Izzi e dei Cantori della memoria  canti popolari e devozionali tra cui quello dedicato alla Madonna dell’Incoronata, si consumeranno semplici pietanze e come novità si ballerà, in compagnia di Angelo Pannacchione il ballo denominato Spallata che chi vorrà potrà apprendere il 27 aprile 2012 in uno specifico laboratorio. La festa continuerà il 29 Aprile con l’accensione dei fuochi a Larino, ma in particolare l’Ecomuseo Itinerari Frentani, in collaborazione di altri gruppi e associazioni,  propone: la mattina una visita guidata al Parco Archeologico di Larino, a seguire una lezione sulla Ciaramella a cura del maestro Franco Izzi e in serata,  presso L’Episcopio di Larino, una rassegna di canti devozionali e di questua ( Litanie di Casacalenda, il Maichentò di Santa Croce,  il Sant’Antonio Abate di Montorio nei Frentani…) introdotti dalla lettura di un lavoro inedito di Marcello Pastorini.

Marcello Pastorini (Ecomuseo Itinerari Frentani)

Per info: www.itinerarifrentani.it

sabato 7 aprile 2012

Auguri di una Pasqua serena e piena di armonia



giovedì 5 aprile 2012

A PROPOSITO DI VINO BIOLOGICO

Ho avuto modo di parlare in questo post come l’Unione Europea, con il regolamento n° 203/2012, ha decretato la nascita del “vino biologico” rispetto alla vecchia normativa che prevedeva, invece, la produzione di “vino ottenuto da uve biologiche”. Come già anticipato, si è trattato di un provvedimento non privo di strascichi polemici, in modo particolare per le dosi di anidride solforosa, ancora troppo alte secondo alcuni. La normativa dell’UE, in vigore dal 1 agosto 2012, prevederà una rinegoziazione entro il 1 Agosto del 2015, sintomo di un accordo raggiunto non senza contraddizioni. In tale data, infatti, dovranno essere terminate gradualmente o limitate pratiche enologiche come trattamenti termici, l’impiego di resine scambiatrici e l’osmosi inversa. Tralasciando il discorso solfiti, di cui ho già avuto modo di parlare, vorrei soffermare la mia attenzione sulle altre pratiche enologiche che vengono, di fatto, vietate nell’immediato. Parlo della concentrazione parziale a freddo o crioconcentrazione, dell’elettrodialisi per la gestione della stabilità tartarica, dell’eliminazione dell’anidride solforosa con procedimenti fisici, della dealcolazione parziale e del trattamento con scambiatori di cationi.


Detto così, per chi non è addentro al settore, potrebbero sembrare delle cose astruse o magari, per i più suggestionabili, delle vere e proprie alchimie chimiche e non che, in mano all’enologo di turno, possano contribuire alla "costruzione" di un determinato vino. In realtà, si tratta di vere e propri sistemi di processo contenuti nel “Codice internazionale delle pratiche enologiche” decretato dall’OIV, l’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino, che ne definisce le disposizioni e l’eventuale ammisibilità. Cerchiamo di capire meglio, sempre con l’ausilio del relativo manuale dell’OIV, giunto all’ultima revisione (2012), la funzionalità e l’applicazione di dette pratiche enologiche, alla luce della normativa in materia di “vino biologico” che ne vieta o in parte l’utilizzo. Non vuole essere una disamina tecnica, tengo a precisarlo, d'altra parte non è l'obiettivo del blog, ma un modo per poter comprendere in maniera più trasparente e chiara le varie tematiche riguardanti il settore.

La concentrazione dei mosti, che è illegale per i vini in ambito U.E., possiamo definirla come la parziale eliminazione di un solvente da una soluzione, nella fattispecie l’acqua. Uno dei sistemi per raggiungere questo obiettivo è la crioconcentrazione, ossia portare il mosto ad una temperatura prossima al suo punto di congelamento causando la formazione di cristalli di ghiaccio, quello che accade naturalmente negli Eiswein, che vengono di seguito eliminati. L’osmosi inversa o iperfiltrazione, invece, caratterizzata da costi di gestione più contenuti della precedente, è altresì un metodo di separazione dell’acqua ma con l’ausilio di una membrana semipermeabile, che lascia passare le molecole dell’acqua ma non a quelle dei soluti disciolti in essa. Si tratta, in entrambi i casi, di tecniche sottrattive che, togliendo acqua, concentrano automaticamente gli zuccheri e quindi consentono di ottenere vini più alcolici e, di conseguenza, più strutturati e concentrati. Prima la crioconcentrazione, già a partire dal 1 agosto di quest’anno, e poi l’osmosi inversa dal 2015, saranno espressamente vietate.

Esempio d'impianto per osmosi inversa
La stabilizzazione tartarica dei vini è un altro problema con il quale si devono confrontare tutte le cantine, avendo un ruolo importantissimo nella presentazione dei vini al consumo. E’ causa della presenza in contemporanea nel mosto di potassio e acido tartarico che, combinandosi, portano alla formazione di cristalli insolubili che precipitano, tradizionalmente, durante l’inverno successivo alla vendemmia. Nel caso che la precipitazione non avvenga completamente in cantina, avverrà in un secondo tempo, in bottiglia che nei vini rossi possono passare inosservati ma che possono essere molto evidenti nei vini bianchi. Pur non trattandosi di un difetto, l'aspetto del sedimento fa a volte addirittura nascere nei consumatori dubbi sulla genuinità del vino. Con la stabilizzazione tartarica si cerca, in cantina, di evitare ogni successiva formazione cristallina in bottiglia attraverso diverse metodiche, tra cui l’elettrodialisi. Il procedimento, autorizzato dal 1997, permette di asportare selettivamente gli ioni responsabili delle precipitazioni tartariche, in modo indipendente dalla presenza di colloidi che limitano l'efficacia della stabilizzazione a freddo. Tale metodica non sarà consentita nei “vini biologici” e, di conseguenza, si potranno utilizzare i classici metodi fisici di trattamento a freddo o con l’aggiunta di stabilizzanti.

Altra tecnica su cui la commissione ha messo mano, ritenendola non compatibile con le tecniche “naturali” di produzione del vino, è la desolforazione, ossia togliere l’anidride solforosa precedentemente aggiunta a mosti in dosi massicce (> 100 gr/hl - mosti muti) per evitarne la fermentazione, in modo da riutilizzarli, in un secondo momento, per la produzione di vini frizzanti (es. Lambrusco) e vini da rifermentazioni (spumanti). Altro divieto è quello dell’acido sorbico, generalmente aggiunto al vino sotto forma di sale potassico solubile, in qualità di antifermentativo (inibisce l’azione dei lieviti), spesso utilizzato per i vini liquorosi e spumanti.
Da alcuni anni è sempre più frequente riscontrare vini con un grado alcolico elevato, complice un insieme di fattori tra cui i cambiamenti climatici e il miglioramento della tecnica viticola. Per evitare questioni legali circa il tenore di alcool massimo nel vino (15%, superabile per le DOP), di tipo organolettico per eventuali squilibri sensoriali e ultimo, ma non per importanza, la diminuzione del consumo di vino, figlia di una campagna ossessiva sugli effetti dell’alcool, le aziende possono ricorrere alla dealcolazione parziale del vino mediante tecniche fisiche di separazione. Anche questa metodica, nel caso del “vino biologico” non potrà essere utilizzata.


In definitiva, con questa normativa, si dà una svolta radicale sul biologico in vitivinicoltura. Verranno bandite, in questo modo, tutte quelle pratiche di cantina che, in mano a tecnici spregiudicati - non tutti per fortuna - e poco rispettosi della natura e del terroir, verranno utilizzate come scorciatoie per poter ottenere il vino desiderato o più gradito al gusto del consumatore. Biologicamente parlando, scelte agronomiche ben precise nella corretta gestione del vigneto (tecniche colturali e controllo delle avversità biotiche), facilitate da una contestualizzazione territoriale, imprescindibile per il sottoscritto, come ho già avuto modo di ribadire a più riprese, consentiranno di ottenere uve di qualità, spesso con più fatica rispetto ad una viticoltura convenzionale, ma sicuramente capaci di dare vini con un’impronta territoriale più marcata.

Sebastiano Di Maria

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