giovedì 19 gennaio 2012

VITICOLTURA CONVENZIONALE: TUTTO DA BUTTARE?

Proteggere e difendere l’ambiente in cui viviamo è sempre più un elemento caratterizzante la nostra società. Anche il settore vitivinicolo non si sottrae da tale logica, forte anche degli sviluppi che la ricerca mette in campo, come la viticoltura di precisione, per far fronte, tra l’altro, all’adeguamento del quadro normativo previsto per il 2014 circa la difesa da parassiti animali e vegetali. Ed ecco quindi il concetto di sostenibilità, intesa non solo come tutela della salute del consumatore e dell’ambiente, ma anche sociale ed economica. Gli obiettivi imprescindibili sono: minimizzare l’uso della chimica e il suo impatto ambientale, migliorare nel contempo la cura del suolo e della sua fertilità attraverso la tutela della biodiversità e dell’ecosistema vigneto, ossia conservazione delle risorse, ed economicità delle operazioni. Uno sviluppo organico di tali principi è in essere, già da qualche anno, con il progetto Magis, implementato da molte aziende vitivinicole sull’intero territorio nazionale. Ci sono paesi che definiscono la viticoltura sostenibile come “economicamente valida, socialmente responsabile e sensibile all’ambiente”. In diversi paesi sono stati implementati veri e propri protocolli di viticoltura sostenibile, con tanto di ispezioni e certificazioni.


Un discorso a parte meriterebbero poi la viticoltura biologica e quella biodinamica. La prima prevede l’utilizzo di protocolli che escludano l’utilizzo della chimica di sintesi, ma consentono l’utilizzo di rame e zolfo come anticrittogamici, la seconda, quella più estremista, con approcci più di tipo spirituale che scientifico, che vede il suolo come parte integrante di una simbiosi tra il pianeta, l’aria e il cosmo. Niente chimica, solo poltiglia bordolese, zolfo e preparati biodinamici (letame, corno-letame e corno-silice).
In mezzo abbiamo la viticoltura convenzionale, la più diffusa al mondo, che prevede l’utilizzo di fertilizzanti e agrofarmaci di sintesi, con regolamentazioni stringenti per quest’ultimi, irrigazione a goccia, diserbo sottofila o, in alternativa, lavorazione meccanica, ed inerbimento delle interfila. L’uso degli antiparassitari avviene, generalmente, attraverso sistemi di lotta integrata, frutto di un continuo monitoraggio della situazione del vigneto.
Tale sistema di conduzione è ormai sotto continuo attacco da una parte della stampa specializzata, parte del mondo scientifico e soprattutto dai consumatori, perché preoccupati dalle questioni relative all’ecosistema viticolo e del rispetto dell’ambiente, nonché della salute.
A tal proposito, vi sono anche studi che tentano di ridurre l’impatto ambientale della viticoltura convenzionale, come quello della Nuova Zelanda, conosciuto come “convenzionale verde” o viticoltura sensibile all’ambiente che prevede, ad esempio, la semina di specie i cui fiori attraggono insetti predatori e tecniche di compostaggio in loco che accelerano l’umificazione dei residui vegetali riducendo il rischio di botrite.
D’altro canto, per quanto si possa applicare con rigore il metodo bio nella propria azienda, i prodotti non possono essere tali se vengono contaminati dalla deriva dei trattamenti fatti dalle aziende circostanti. Quindi il vero bio deve essere assolutamente un fatto territoriale. Non a caso si parla di vini prodotti da agricoltura biologica e non di vini biologici.
Altro aspetto da considerare è l’eccessivo uso della chimica di sintesi in vigneto. Da una parte ci sono le multinazionali, i cui prodotti prima di essere messi in commercio passano attraverso un rigido protocollo di valutazione dei rischi, certificazione di un ente terzo e relativi effetti su uomo ed ambiente, con regolamentazioni sia in ambito Comunitario che dei singoli stati membri. Dall’altra parte abbiamo l’utilizzo del rame o della poltiglia bordolese che, utilizzati in dosi massicce, portano ad accumulo di rame che, come metallo pesante, causa fenomeni di tossicità oltre che problemi fermentativi.
C’è poi chi sostiene, su dati sperimentali anche se parziali (Università di Bologna, Prof. Adamo Rombolà), che un vigneto coltivato in biodinamico rispetto ad una parte dello stesso coltivato a biologico abbia diversi aspetti positivi: maggiore sviluppo delle radici, maggiore presenza di lieviti sulle bucce, maggiore carica microbica del suolo, peso delle bacche inferiore a parità di peso e quindi un miglior rapporto polpa/buccia.
Un altro studio ventennale condotto nella Loira ha invece dimostrato che la trinciatura dei sarmenti di potatura è preferibile, per apportare sostanza organica, al compost da funghi o al letame bovino.
Come è noto che un certo grado di stress idrico migliora il potenziale qualitativo del vino, ma questo non vale per lo stress idrico grave, come la carenza di azoto che è comune nei vigneti “biologici”, abbassa notoriamente il livello qualitativo di molti vini, con tutti i problemi che porta a livello fermentativo.
Insomma, credo che la promozione di una viticoltura tradizionale condotta in maniera equilibrata ed ecosostenibile sia il compromesso giusto. Senza perdere d’occhio le innovazioni tecnologiche, come successe alla fine dell’ottocento con la fillossera e le prime patologie che decretarono la nascita della viticoltura moderna, e come la necessità attuale di rispetto dell’ambiente e di tutela della salute del consumatore, perseguibili attraverso strumenti come la zonazione viticola, la viticoltura di precisione, grazie al progresso scientifico, per uno sviluppo di una viticoltura sostenibile o lo studio di vitigni e portinnesti tolleranti le malattie e più efficienti contro gli stress abiotici. Ben vengano anche le forme di viticoltura alternative, purchè fondate su dati concreti privi di enfatizzazioni e realmente inserite in un contesto territoriale.
Sebastiano Di Maria
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